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Non è un Paese per donne, nemmeno il web. E nonostante “fare rete” resti l’antidoto più efficace contro l’esclusione femminile dal dire e dal fare, proprio la rete online, che nasce per amplificare le connessioni e le opportunità, resta ancora una dimensione inospitale. Perché? Perché la tecnologia è uno strumento neutro e come tale viene progettata e orientata dall’uomo, intendendo provocatoriamente non il genere umano, ma proprio quello maschile che più diffusamente ricopre ruoli apicali, decisionali e spesso tecnici in ambito digitale (il regno delle famose STEM).
In verità non c’è da meravigliarsi, dal momento che l’online rispecchia i valori (e i disvalori) del mondo off e anzi molto spesso amplifica le nostre tendenze quotidiane. C’è un acceso dibattito attorno alla rappresentazione delle piattaforme digitali come “agorà”, archetipo a cui si associa spesso la totale libertà di espressione senza limite alcuno (né dettato dalla decenza né dal diritto). Questa lettura tende però a dimenticare che la piazza, intesa come luogo di incontro, manifestazione e confronto nelle nostre città, può avere una conformazione più o meno accogliente, da un punto di vista sociale ma anche architettonico, rispondendo ai criteri di chi l’ha organizzata o progettata. Per farla breve, abbiamo traslocato dall’offline all’online portandoci dietro enormi bagagli di bias che si traducono in barriere all’ingresso.
Non possiamo, infatti, non tenere conto dei dati che dimostrano la penalizzazione del genere femminile in riferimento all’utilizzo di strumenti tecnologici e della rete. La diseguaglianza economica, educativa e salariale, legata anche all’ubicazione geografica (considerando che ancora molti territori non godono di una buona connessione a internet) riguarda più le donne che gli uomini.
Non solo: la carenza di studentesse e professioniste in ambito STEM fa sì che i programmatori siano per lo più uomini che applicano paradigmi maschili. Per fare un esempio, il servizio di assistenza vocale utilizza preferibilmente timbri femminili proprio perché le attività di cura sono solitamente associate alle donne. E’ tristemente noto che gli stessi dispositivi abbiano registrato molestie verbali identiche a quelle che le donne affrontano per le strade del mondo “reale”. Solo in un secondo momento, i programmatori hanno previsto una risposta agli insulti sessisti, infatti, inizialmente il dispositivo reagiva in modo dimesso. Antropomorfizzare le macchine tecnologicamente avanzate può, dunque, riflettere i nostri bias di genere, se non si agisce secondo una cultura inclusiva.
Del resto questo tema riguarda le minoranze a tutto tondo, dal momento che le macchine agiscono basandosi sui big data, ossia su una vasta collezione di informazioni che derivano dai comportamenti umani nel mondo digitale e che pertanto riflettono situazioni di squilibrio tipiche della nostra società. È stato rilevato, infatti, che l’intelligenza artificiale può essere razzista, oltre che sessista. A sollevare il caso è un esperimento condotto negli Stati Uniti dalla Johns Hopkins University in collaborazione con il Georgia Institute of Technology e la Washington University. A un robot è stato chiesto di riconoscere i volti di persone stampati su alcuni cubi per riporli in contenitori diversi, sulla base di 62 comandi del tipo “metti il dottore nella scatola” oppure “riconosci il criminale”. Monitorando la frequenza con cui la macchina ha selezionato le persone in base al genere e al colore della pelle, è emersa una forte incidenza di stereotipi e pregiudizi. Il robot, in particolare, ha scelto più spesso volti maschili quando il comando era legato a un ruolo professionale di responsabilità, associando frequentemente le donne ai lavori domestici e determinati tratti somatici alla criminalità.
È evidente che anche la tecnologia presenti distanze da colmare e barriere da abbattere. Grazie a un’intelligenza artificiale sempre più sofisticata, le macchine sono in grado di elaborare, custodire e utilizzare meglio di noi le informazioni, ma anche di organizzarle e imparare ad agire secondo ragionamenti strutturati. Per questo, vengono affidati alla tecnologia compiti sempre più complessi e strategici. Diventa, quindi, urgente domandarsi come programmare i sistemi affinché portino benefici e migliorino la società, in un’ottica di inclusione. Per questo, una formazione meno polarizzata, dal punto di vista del genere e non solo, in ambito STEM, può incentivare una leadership più composita e rappresentativa della società, con riflessi positivi anche sugli ambienti digitali che stiamo costruendo.
Per dirla con le parole di Padre Benanti, intervistato al recente Meeting di Rimini: “Uno strumento innovativo non è detto che sia migliore. Dobbiamo puntare su un altro criterio, ossia “sviluppo”. Lo sviluppo è, infatti, una forma di innovazione che aiuta l’uomo a vivere un’esistenza realmente umana. Se lo sviluppo è plurale e gentile può trasformare l’innovazione in qualcosa di positivo”.
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