Quell’alleanza che puzza di bruciato, siglata in discarica nel nome della plastica- Corriere.it

2022-03-03 06:15:42 By : Mr. Shixiang Chen

Una enorme montagna di rifiuti di plastica, dal colore marrone, rimossa, sacchetto dopo sacchetto, dalle braccia meccaniche di zelanti escavatrici. Le macchine si arrampicano fin quassù per dissotterrare e portare materia prima (che mai potrà diventare materia prima seconda) nei cementifici. E’ l’immagine di una discarica indonesiana a Bogor, ad una cinquantina di chilometri dalla capitale Giacarta. E tutto questo, racconta una recente inchiesta dell’agenzia britannica Reuters, non sarebbe che uno dei numerosi accordi tra le grandi multinazionali del mondo e i principali produttori di cemento per trasformare la plastica in energia. In questo modo, spiegano, bruciando i rifiuti di plastica nei forni per il cemento, i primi vengono trasformati in energia. Senza l’utilizzo del carbone. Insomma, una “carezza” alla Terra, che sarebbe risollevata dall’ennesima discarica, ed un’altra agli Oceani, liberati dall’inquinamento di pluriball, contenitori di asporto e sacchetti per la spesa. Ma questo è ciò che affermano le due parti dell’intesa.

Patto tra multinazionali e produttori di cemento per trasformare i rifiuti di plastica in energia. Dall’Indonesia alla Cina, discariche svuotate per trasferire i rifiuti nei forni. Il popolo green: «E’ come spostare una discarica dalla terra al cielo». Allarme per i Paesi in via di sviluppo

In Indonesia, l’accordo per la «Plastica trasformata in energia per i cementifici» è avvenuto tra la multinazionale Unilever e l’industria del cemento, PT Solusi Bangun Indonesia Tbk (Sbi). Ma fanno parte dello stesso tipo di procedura, in altre parti del mondo (dal Costa Rica alle Filippine, da El Salvador all’India ) altre importanti multinazionali come Coca-Cola, Colgate-Palmolive e Nestlé ; e, per il mondo del cemento, oltre a quella indonesiana, le prime tre al mondo: la svizzera Holcim Group, la messicana Cemex SAB de CV e Republic Cement & Building Material Inc, nelle Filippine . Alla base di questa collaborazione ci sarebbero motivi economici difficilmente coniugabili con obiettivi ambientalistici. Per esempio, in questi ultimi anni, i produttori di cemento, responsabili del 7 per cento delle emissioni di Co2 del Pianeta, si sentono evidentemente sotto pressione e tentano di ridurre sempre più le loro emissioni. Allo stesso tempo, le multinazionali devono destreggiarsi tra legislatori sempre più incalzanti sul “chi inquina, paga” e difficoltà a liberarsi in poco tempo della plastica monouso.

Botta e risposta da fronti opposti

Se si tratta davvero di un accordo in chiave green? Scienziati, ricercatori e ambientalisti sarebbero più o meno d’accordo nel dire che bruciare plastica nei forni dei cementifici è come scambiare un combustibile sporco con uno altrettanto dannoso . La risposta degli imprenditori del cemento non si è fatta attendere. Axel Pieters, amministratore delegato di Geocycle, dei rifiuti di Holcim Group, uno dei più grandi produttori di cemento al mondo e partner di Nestlé, Unilever e Coca-Cola per la trasformazione della plastica in energia, ricorda che «bruciare plastica nei forni da cemento è una operazione sicura ed economica». E che «Neppure il 10 per cento di tutta la plastica prodotta è stata mai davvero riciclata. Anzi, tra meno di vent’anni la plastica prodotta si raddoppierà. Insomma, se credete alle favole, credeteci pure» . All’inchiesta della Reuters sarebbe arrivata una mezza risposta, via mail, anche da Unilever. In un burocratese a dir poco laconico: «Laddove il riciclaggio dei rifiuti non dovesse essere fattibile, esploreremo nuove forme di recupero energetico». Di fatto, è praticamente impossibile scoprire quanti rifiuti di plastica siano bruciati dai cementifici . Plastica, legno di scarto e vecchi pneumatici vanno sotto il nome di “carburante alternativo” e risalire alle loro origini è missione complicata.

Anche se alcuni dati sono sotto gli occhi di tutti. Lo stesso ad Peters, della Geocycle, afferma che ogni anno vengono utilizzati due milioni di tonnellate di rifiuti di plastica come combustibile alternativo per la Holcim in ogni angolo del mondo. Ed ancora: «Non intendiamo fermarci: vorremmo arrivare, entro il 2040, a 11 milioni di tonnellate all’anno, dal momento che l’industria del cemento potrebbe bruciare tutti i rifiuti di plastica prodotti nel mondo». Trecento milioni di tonnellate all’anno, secondo una stima delle Nazioni Unite. E poi ci sono altri due numeri: 46 e 29 milioni di tonnellate. Quarantasei milioni di tonnellate sono i rifiuti di plastica riciclati ogni anno (sì, davvero poca roba rispetto ai 300 prodotti).

Negli Oceani 29 milioni di tonnellate di plastica

Mentre quel 29 sta per i milioni di tonnellate di rifiuti di plastica che, entro il 2040, galleggeranno tranquillamente ogni anno nei nostri oceani. Intanto, se in Europa il carburante alternativo dei cementifici rappresenta il 50 per cento, in Indonesia , un arcipelago abitato da 270 milioni di abitanti, e la cui capitale, Giakarta, è invasa da bustine monouso di plastica altamente inquinanti, la collaborazione tra multinazionali di beni di consumo e grosse industrie del cemento, viene vista come una liberazione di tipo ambientalistico : «Come governo indonesiano, ci auguriamo che possano esserci altre collaborazioni dopo quella tra Unilever e la nostra produttrice di cemento, Sbi», ha detto recentemente Andono Warih, capo del servizio ambientale della capitale.

Il “risveglio” dei sacchetti-zombie

Se andassimo a scoprire le varie fasi di lavorazione della plastica prima di diventare energia per i cementifici, assisteremmo ad una specie di “Notte dei morti viventi” della plastica che fu. Quelli che un tempo erano sacchetti (e non solo) vengono praticamente dissotterrati nella discarica indonesiana di Bantar Gebang, mediante macchine di movimento terra, per poi essere trasportati in un enorme magazzino a due passi dalla stessa discarica. Il materiale viene così setacciato, essiccato e sminuzzato fino a formare una poltiglia di color marrone (sembrerebbe letame, se non ne conoscessimo l’origine) per poi essere immesso nei forni del cemento . Al momento, questo tipo di rifornimento energetico costituisce il 29 per cento dell’impianto. Ma i responsabili del cementificio puntano ad utilizzarne il 35 per cento. Insieme al progetto portato avanti da Unilever in un’altra discarica indonesiana, a Cicalap, ben presto potrebbero confluire negli impianti di PT Solusi Bangun Indonesia Tbk (Sbi) trentamila tonnellate di rifiuti di plastica all’anno.

Respiri di plastica. Tra diossine e furani

A pochi passi da una industria che non può fermarsi, dicendo di aver scoperto la soluzione migliore, sicuramente la più economica, troviamo il venditore del 63enne Dadan bin Anton, la cui storia è paradossale. A soli due chilometri dalla cementeria Sbi, nei pressi di Giakarta — scrive Reuters —, quest’uomo possiede una bancarella per la vendita di buste di plastica delle stesse multinazionali che abbiamo precedentemente nominato: «L’aria è irrespirabile: la polvere che fuoriesce da quel cementifico ti riempie i polmoni». E’ anche vero che l’aria di Giakarta notoriamente è una delle più inquinate dell’Asia. «Ma è inutile girarci intorno: la plastica, quando brucia, rilascia sostanze inquinanti e nocive sia per l’uomo che per gli animali. Parliamo soprattutto di diossine e furani (ndr. ossido di divinilene, un composto tossico che può essere cancerogeno)», osserva Paul Connett, professore in pensione di chimica ambientale e tossicologia alla St. Lawrence University di Canton, New York. Di diverso avviso Claude Lorea, portavoce di “Gcca”, l’associazione che raggruppa alcuni dei più grandi imprenditori del cemento: «I forni surriscaldati distruggono tutte le tossine derivanti dalla combustione di qualsiasi combustibile alternativo, compresa la plastica e i rifiuti pericolosi. Bruciare immondizia, quindi, riduce la nostra dipendenza dai combustibili fossili».

Cattivo esempio nell’austriaca Carinzia

Sarà pure vero, ma non serve andare fino in Asia per comprendere rischi e conseguenze della plastica che brucia. In Austria, nel 2014, si verificò una fuoriuscita di esaclorobenzene, già presente nei rifiuti inquinanti utilizzati come combustibile in un cementificio della Carinzia . A nulla erano valsi fino ad allora i controlli delle autorità locali. C’è voluto l’intervento dell’Agenzia nazionale per la Salute e la Sicurezza alimentare per riscontrare che sia il formaggio sia il latte dei bovini della zona erano stati contaminati . Sul problema si è pronunciata la Commissione europea: «La plastica, bruciando, emette meno Co2 rispetto al carbone, ma molto più del gas naturale» , un altro elemento energetico utilizzando dal mondo dei cementifici. Dal fronte americano, arriva una secca accusa alla plastica energetica per il cemento dall’Agenzia Usa per la protezione dell’ambiente: «Non c’è alcun beneficio climatico nel far bruciare rifiuti di plastica al posto del carbone» . Ancora più duro, Lee Bell, consulente per “International Pollutants Elimination Network”, una coalizione globale che lavora per eliminare inquinanti tossici: «Dobbiamo smetterla di considerare il carbone, il combustibile fossile più inquinante del mondo, come unico punto di riferimento. Se davvero l’industria del cemento ha intenzione di rivedere lo stato dell’arte delle proprie emissioni, si concentri sull’uso dell’idrogeno verde. Che sarà pure costoso, ma meno inquinante di tutti ».

Il grido d’allarme degli ambientalisti

Ma allora, come se ne esce? Perché qui, tra i 3 mila cementifici presenti sul Pianeta, sembra proprio che la politica del “Waste-to-fuel” sembra la più diffusa. In Cina ed India, che da sole costituiscono il 60 per cento della produzione mondiale di cemento alimentato a carbone, entro dieci anni, il carburante alternativo dovrà essere spinto a tal punto da rappresentare il 30 per cento della produzione . Il contesto è ciò che preoccupa di più: in molti Paesi del mondo la produzione di plastica ha superato di gran lunga la capacità degli stessi Paesi di contenerla o di riciclarla. E bruciandola, di sicuro si fa prima. Magari qualcuno se ne sarà fatta una ragione e probabilmente avrà capito dove si rischia di finire, perseverando nella plastica-energia per il cemento. Lo stesso Sander Defruiyt, responsabile di una iniziativa sulla plastica per la “Ellen MacArthur Foundation” avrebbe ammesso in modo quasi sarcastico: «Bruciare la plastica per il cemento è una soluzione immediata, conveniente e che rischia di mandare all’aria ogni forma di limitazione alla plastica monouso e all’eco-design degli imballaggi. Insomma, se puoi scaricare tutto in un forno, perché dovresti crearti dei problemi?» .

Nel villaggio della ceramica e del cemento

Restiamo in Europa, nell’Inghilterra del principe Carlo, il cui amore per l’ambiente non ha bisogno di presentazioni. Eppure, nel villaggio di Cauldon, a pochi chilometri da Stafford e celebre per la lavorazione della ceramica, gli abitanti si sono lamentati per il cementifico della zona, appartenente alla Holcim . Polvere e odori sgradevoli renderebbero impossibile passare da quelle parti. Non solo. Molto presto, quello stesso impianto sarà alimentato all’85 per cento dalla combustione dei rifiuti plastici . Ogni mondo e Paese, se c’è di mezzo plastica da ardere. Quanto all’Indonesia, da dove era partita tutta questa storia, la battuta finale, amara e realista allo stesso tempo, spetta di diritto all’attivista ambientalista indonesiano Yobel Novia Putra: «Se continueranno di questo passo, sarà come spostare la discarica dalla terra al cielo».