Guerra in Europa

2022-04-22 19:27:50 By : Ms. Candy Zhang

«L’offensiva russa in Donbass è cominciata», avverte Volodymir Zelensky. Il tormento dei bambini ucraini non è mai finito: per chi sente (anche da lontano) una certa stanchezza per questa crisi nel cuore dell’Europa, ci sono storie che risvegliano l’attenzione e l’indignazione. Basta seguire il viaggio di un peluche insanguinato, o il girovagare di un paio di Airpods rubati dai soldati in ritirata. Volendo, ci si può appassionare alla pista dei soldi: le riserve della Banca Centrale russa (in quali Paesi sono?), o lo stipendio di Vladimir Putin. Per poi fermarsi davanti a una fontana molto speciale, che tra mille avventure è arrivata da Kharkiv a Venezia. Una goccia di speranza. Buona lettura.

Guerra in Europa è una produzione speciale di America-Cina ed è uno dei tre appuntamenti de «Il Punto» del Corriere della Sera. Potete registrarvi qui e scriverci all’indirizzo: americacina@corriere.it.

Alle basi avanzate dei soldati ucraini e tra i volontari del battaglione Azov stanno infine arrivando anche le maschere anti-gas assieme alle tute di protezione contro le armi chimiche e batteriologiche. Una parte sono comprate e consegnate privatamente dalle associazioni di civili che si sono mobilitate per aiutare chi combatte, e un’altra parte giunge dai Paesi alleati.

Della minaccia chimica parla con preoccupazione anche il chirurgo 27enne dell’ospedale di Zaporizhzhia, Favad Ali-Shah . «Per adesso se ne sta solo parlando come pericolo eventuale. Però, dato che in Siria le armi chimiche sono state utilizzate anche con la luce verde di Mosca, noi occorre organizzarsi». Ma gli ucraini non sono per niente attrezzati. Gli stessi medici hanno ricevuto solo poche lezioni in merito, e i soldati non hanno mai visto una tuta di quelle che stanno arrivando. Ancora il medico accenna anche a «quattro aerei militari russi» che starebbero trasportando «bombe atomiche tattiche». A suo dire sono ancora informazioni da verificare, ma anche in questo caso l’impreparazione è totale. Di fronte alla sede locale del battaglione Azov il comandante, Michail Pirog, ci mostra un mucchio di maschere anti-gas appena consegnate. I suoi soldati le guardano con curiosità. «Speriamo di non doverle mai indossare. Ma non si sa mai», dice. Un attendente prova a appendere una maschera alla vita. «Sono molto scomode da portare» . Un peso in più da trascinare sul camion che conduce al fronte, una trentina di chilometri da qui.

Il primo giorno che siamo arrivati a Odessa, il 21 marzo, il checkpoint davanti all’Opera era presidiato da decine di soldati. Tutto intorno, blocchi di cemento, sacchetti di sabbia e cavalli di Frisia. Le sirene suonavano di continuo. Sentire i colpi della contraerea in azione sul porto era diventata la normalità. L’alba che hanno attaccato i depositi di petrolio, un drone è scoppiato davanti alla finestra della collega de La 7 che era venuta a svegliarmi perché bombardavano e io non sento mai niente quando dormo. Ora di quella barriera non è rimasto quasi più nulla .

Tra domenica e lunedì gli addetti alla manutenzione della città hanno rimosso le croci di metallo e il filo spinato. E nelle ultime ore le sirene non hanno praticamente mai suonato. Tanti colleghi sono rientrati in Italia, pronti a tornare in Ucraina per una nuova fase della guerra. Da quando l’ammiraglia russa Moskva è stata affondata , Odessa si sente molto più al sicuro. Il primo giorno in cui siamo arrivati, dal mare i russi avevano colpito un complesso residenziale, ferendo Anatoly. Ma ora è almeno una settimana che non ci sono grossi attacchi sulla città. Ieri abbiamo potuto camminare un po’ per il centro senza troppe restrizioni. È stata una sensazione strana, dopo 45 giorni e passa di guerra, per la prima volta, per pochi minuti, mi sono sentita totalmente al sicuro. Il coprifuoco però resta. Le mine al porto e sulla spiaggia pure . Davanti all’Opera ancora non ci si può muovere liberamente, cosi come è vietato fare fotografie o muoversi sulla scalinata della corazzata Potemkin . I negozi hanno riaperto, sì, ma nessuno si è lasciato andare a grandi manifestazioni di giubilo. Odessa è fredda, algida, un po’ parigina. Ma è furiosa perché non può fare quello che sa fare meglio. Ossia affari e denaro. Il fronte sud non è solo Odessa. Mykolaiv dove sto arrivando ora è sotto costante bombardamento e senz’acqua da una settimana. Prima di partire abbiamo fatto il pieno di benzina, acqua e comprato delle pale per i volontari che scavano le trincee. Lì si muore tutti i giorni. Per le bombe a grappolo, le mine, i grad. Mentre Kherson è laggiù, a soli 30 km, ma cosi vicina e allo stesso tempo così lontana perché sotto controllo dei russi fin dall’inzio della guerra. La regina Odessa sicuramente sta vivendo una nuova fase. E chissà che un giorno non potremo entrare all’Opera, con i vestiti puliti. Ma, per ora, la guerra non è finita nemmeno al fronte al Sud, e il timore è che debbano morire ancora in tanti prima che si possa scrivere la parola fine.

Un pupazzetto insanguinato. Innocente come il bambino che lo teneva stretto a sé, mentre aspettava il treno della salvezza, a Kramatorsk. Il missile piovuto sulla stazione ha cambiato a tutti e due la rotta del viaggio. Il bambino è rimasto gravemente ferito, è in ospedale. Anche il pupazzetto è rimasto gravemente ferito. Lo hanno raccolto insanguinato sulla banchina davanti al binario, e lo hanno infilato in una scatola di reperti giudiziari.

Il ministro degli Interni ucraino Denys Monastryrskyi in persona lo ha consegnato al coordinatore per la crisi ucraina delle Nazioni Unite , Amin Awad (foto sopra ). Sarà pure un pupazzetto, ma è testimone oculare, fisico. E il sangue che si porta addosso sarà una prova , parlerà per lui alla Corte di giustizia dell’Aja quando finalmente si occuperà dei crimini di guerra commessi dai russi. Sarebbe bellissimo se un giorno, con la pace sullo sfondo, questo mostriciattolo pieno di sangue e polvere potesse tornare ai suoi colori originali e, soprattutto, al suo piccolo umano.

Fin da quando un colpo di mortaio , a febbraio, ha sventrato un asilo in Donbass inaugurando le ostilità, si è ripetuto spesso quanto la guerra in Ucraina sia, in realtà, una guerra contro i bambini; ogni giorno un nuovo dato illustra questo aspetto del conflitto, il più insopportabile, e così ieri l’Onu ha comunicato che sarebbero senza casa i due terzi dei 7,8 milioni di bambini del Paes e sono sfollati e senza casa, mentre oggi il bilancio quotidiano della Procura generale ucraina è aggiornato a 205 bambini morti e 367 feriti dall’inizio della guerra . Scuole bombardate: 1.141. Di queste, 99 sono completamente distrutte.

La nonna di Elisei Ryabukon: aveva 14 anni

Il presidente ucraino Zelensky , ieri, ha detto alla Cnn che «almeno cinquemila bambini sono stati deportati dalla regione di Mariupol in Russia» , e nessuno sa dove sono. Sul Corriere di oggi Giusi Fasano parla di un traffico di 150 piccoli strappati ai genitori dai soldati di Mosca, per darli in adozione a coppie russe secondo procedure illegali, e Andrea Nicastro racconta della ninna nanna per una bambina di nome Alisa, 4 anni, che la mamma - una medica militare - non è riuscita a mandare in salvo e dunque tiene con sé da due mesi negli infernali cunicoli sotto l’acciaieria Azovstal , dove si nascondono civili terrorizzati, forse un migliaio, e soldati feriti, mutilati, agonizzanti. Alisa è la protagonista di un video che circola sui social, in cui sorride inconsapevole. Le storie dei bambini di guerra — milioni di piccole persone che non si sa quando e se torneranno a una vita normale — circolano sui media, e una è più straziante dell’altra; oggi la Bbc pubblica il racconto del funerale di un bambino sorridente «che rifiutava persino gli sport aggressivi» e che avrebbe compiuto 14 anni a maggio. Si chiamava Elisei Ryabukon , ed è morto in una raffica di colpi sulle auto di un corridoio umanitario a Peremoha, un mese fa. Il suo coetaneo Ilya Bobkov è ancora vivo , è scappato da Bucha appena in tempo perché cominciassero i massacri. «Mi aspettavo una giornata normale, compiti e videogiochi», dice alla giornalista. La zia interviene: «Abbiamo dovuto dire loro cose difficili, ad esempio che non saremmo stati sempre certi di avere pane e acqua, in questi giorni». Chissà quando lo saranno di nuovo.

(Irene Soave ) Oggi i leader della compagine occidentale si incontrano in una videoconferenza indetta da Emmanuel Macron e da Joe Biden . Ci saranno, oltre a loro, i capi dei governi tedesco, britannico, canadese, italiano, polacco e rumeno , oltre al segretario generale della Nato, alla presidente della Commissione Europea e al presidente del Consiglio Europeo. Si dibatte della nuova offensiva contro l’Ucraina, la supposta «fase 2» della guerra. Che sembra partire da Est, come previsto. «Le truppe russe hanno iniziato la battaglia per il Donbass» , ha detto ieri sera il presidente ucraino Volodymyr Zelensky. «È un inferno», ha dichiarato il governatore della regione di Lugansk, Sergei Gaidai. Diverse esplosioni sono state sentite nella notte a Mykolaiv , a est di Odessa. Bombardamenti a Kharkiv . A Mariupol prosegue l’assedio. Almeno mille civili sono nascosti nei cunicoli sotto l’acciaieria Azovstal, per lo più donne con bambini e anziani, che assistono quotidianamente a scene strazianti: nei cunicoli si rifugiano anche i soldati ucraini feriti, spesso agonizzanti.

Per oggi alle 15 locali , cioè probabilmente proprio mentre voi riceverete questa newsletter, l’esercito russo ha scandito un ultimatum a chi ancora vi si rifugia: le acciaierie vanno lasciate, disarmati, entro questo termine. A Mariupol, ma anche altrove nel Paese, manca l’acqua. Per l’Unicef oltre 4,6 milioni di persone hanno un accesso limitato a questo bene primario. Intanto al Cremlino ricompare Sergej Shoigu , ministro della Difesa che sembrava epurato per la sua prolungata assenza dalla scena pubblica. Indiscrezioni lo volevano in rovina, in fin di vita, sgradito definitivamente allo «zar». Oggi alla riunione del consiglio del ministero che presiede, ha detto che «l’esercito russo sta attuando sistematicamente il piano per la liberazione delle repubbliche di Donetsk e Lugansk», e che «l’Occidente sta facendo di tutto per prolungare il conflitto». Sembra dunque in salute, e organico al governo.

La Governatrice della Banca centrale russa, Elvira Nabiullina , è seriamente preoccupata per l’effetto delle sanzioni. Una delle misure chiave adottate dall’Occidente è stato il blocco di circa due terzi delle riserve a disposizione della Banca. Vale a dire valute straniere e oro per un controvalore di 643, 2 miliardi di dollari . La restrizione avrebbe dovuto impedire al governo di Vladimir Putin di sostenere la quotazione del rublo, facendo, quindi, sprofondare l’economia russa nell’inferno della stagflazione: prezzi in aumento accompagnati da una brusca recessione. In una prima fase, in effetti, il rublo è crollato sui mercati , ma nelle ultime settimane non solo ha recuperato, ma è rimbalzato su valori migliori rispetto a quelli registrati alla vigilia dell’attacco. La Russia è riuscita a movimentare ugualmente una quota delle sue riserve monetarie. Quanto?

Elvira Nabiullina, a capo della Banca Centrale russa

In un mese Nabiullina ha messo sul piatto 38,8 miliardi di riserve valutarie. In parallelo il governo russo ha avuto a disposizione i ricavi, mai interrotti, dall’export di gas e petrolio: si stima circa 40 miliardi di dollari, quasi un miliardo al giorno (sempre fino al 25 marzo). In totale, quindi, Putin ha potuto gestire una massa ingente di liquidità, quasi 80 miliardi di dollari per finanziare la guerra e attutire il colpo più insidioso delle sanzioni. Ora, però, la Governatrice fa capire che i margini si stanno rapidamente esaurendo . E qui ci viene in aiuto un vecchio grafico che la Banca centrale russa ha rimosso dal web, ma che è stato recuperato dal sito Statista . È lo spaccato del portafoglio non per valuta, ma sulla base dei Paesi in cui sono custoditi i conti. I dati si riferiscono al 31 giugno 2021. Quel giorno il totale delle riserve ammonta a un controvalore di 591 miliardi di dollari. Ebbene il valore dell’oro è pari al 21,7%, cioè 128 miliardi di dollari, interamente stoccato in Russia . Poi ecco la prima sorpresa: il 13,8% , cioè ben 81,5 miliardi di dollari, si trova nelle banche cinesi ; il 12,2%, cioè 72,1 miliardi, in Francia; il 10%, 59,1 miliardi, in Giappone ; il 9,5%, 56,1 miliardi, in Germania; il 6,6%, 39 miliardi, negli Stati Uniti ; il 5,5%, 32,5 miliardi, nelle Istituzioni multilaterali, come il Fondo monetario e la Banca dei Regolamenti internazionali, infine il 4,5%, 26,5 miliardi, nel Regno Unito. Tutte queste cifre suggeriscono alcune considerazioni. Stati Uniti, Unione europea, Regno Unito e Giappone puntano a chiudere tutti i conti della Banca centrale all’estero. Mosca, però, potrebbe sempre contare sul salvadanaio cinese . Lì il 31 giugno scorso era depositato l’equivalente di 81,5 miliardi di dollari. Impossibile, a questo punto, stabilire con precisione quanto denaro ci sia in questo momento. Possiamo solo tentare una stima. È ragionevole supporre che la Banca centrale russa avesse la stessa proporzione nelle diversificazione del portafoglio anche il 25 febbraio scorso. La quota cinese, sarebbe stata pari allora a 88 miliardi (il 13,8% di 643,2 miliardi). Immaginiamo anche che i russi abbiano attinto solo a quei conti per sostenere il rublo, spendendo 38,8 miliardi. Ciò vuole dire che oggi avrebbe ancora l’equivalente di circa 50 miliardi di dollari da usare pronta cassa per fronteggiare un’altra crisi monetaria come quella di fine febbraio. Mosca, quindi, potrebbe essere in grado di sostenere la quotazione del rublo ancora per pochi mesi . Quanti? Dipende da quanto terrà l’economia reale e se non saranno ridotte le entrate provenienti da gas e petrolio . Ecco perché Nabilullina lancia l’allarme.

«Stai subendo perdite , devi evacuare i feriti, hai un fianco scoperto e non arrivano i rinforzi promessi, mentre il bulldozer che ti serve per creare una terrapieno a protezione dei soldati non si mette in moto: difficile in una situazione simile occuparsi anche delle calunnie sulla nostra unità messe in rete su Twitter ». La notazione del generale di brigata Curt Taylor è fondata, ma lui è il primo a sapere che l’esercitazione che sta conducendo nel deserto californiano di Mojave serve proprio a imparare a combattere, contemporaneamente, due guerre: quella sul campo e quella della comunicazione .

Il generale Curt Taylor, con la ministra Christine Wormuth al centro di addestramento di Fort Irwin (Lolita C. Baldor/Ap)

È la lezione che arriva dal conflitto ucraino: una lezione che l’esercito americano sta già trasferendo nell’addestramento dei suoi soldati. I soldati delle divisioni di cavalleria corazza di base a Fort Hood, in Texas, combattono con il fucile in una mano e il telefonino nell’altra . E, appena possibile, postano sui siti le immagini della loro offensiva. Perché il nemico – in questa esercitazione – è una forza militare, denominata Denovian , di consistenza limitata (1.350 uomini), ma abilissima nella propaganda e nelle tecniche di disinformazione: i soldati capiscono di essere finiti in una guerra mediatica, oltre che di carri armati. Cercano, così, coi loro cellulari, di reagire alla disinformazione dell’avversario che attacca anche usando droni da ricognizione e attacco . Nel racconto di un cronista dell’agenzia Ap che ha potuto seguire l’esercitazione, i denoviani gettano lo scompiglio con azioni di guerriglia , facendo crescere il risentimento delle popolazioni locali con false informazioni e usano in modo massiccio droni da combattimento e ricognizione. E, così, per i soldati del generale Taylor la sfida più difficile diventa quella di compiere la loro missione senza essere avvistati dal cielo . Non è la prima volta che il Pentagono prende spunto da un conflitto reale per aggiornare i suoi programmi di addestramento: ad esempio, dopo l’occupazione dell’Afghanistan, il centro addestramento della Louisiana divenne il luogo dove studiare come combattere contro un nemico costituito da gruppi di insorti, anziché da un esercito regolare. Stavolta la guerra dell’Ucraina, il primo grande conflitto dalla Seconda guerra mondiale combattuto in campo aperto e nelle città usando mezzi corazzati, artiglieria e supporto aereo, offre mille insegnamenti: i militari Usa prendono nota delle difficoltà dei russi di rifornire le loro prime linee e le confrontano con le catene logistiche del Pentagono. E se molti attacchi russi sono falliti per l’incapacità dell’ex Armata Rossa di coordinare l’avanzata delle forze di terra con i tiri dell’artiglieria e il supporto dell’aviazione, nelle esercitazioni in California anche gli attaccanti americani si sono trovati a volte allo scoperto per analoghe mancanze di coordinamento . Per i soldati Usa c’è molto da imparare. Purtroppo anche l’orrore di un modo di combattere che punta a distruggere anche tutte le infrastrutture civili e gli impianti industriali. Radendo spesso al suolo gli stessi centri urbani.

Le grandi guerre distruggono anche gli equilibri economici e commerciali, spesso in via definitiva. Secondo Pavlo Makov Janet Yellen, la ministra più potente degli Stati Uniti in fatto di economia e finanza, l’invasione dell’Ucraina sia uno di quei momenti: un evento che spinge verso una nuova Bretton Woods , cioè una ridefinizione dell’economia internazionale. La segretaria al Tesoro forse è un po’ in anticipo: una conferenza per stabilire le regole del nuovo mondo post-bellico dovrà prima verificare l’esito dell’aggressione di Putin e come i vari Paesi, innanzitutto la Cina, si porranno rispetto a essa. Ma la questione è certamente in alto nei pensieri dei governi e di chi fa impresa .

Janet Yellen, ministra del Tesoro Usa

Yellen ha coniato un termine per indicare in quale direzione dovrebbe formarsi un nuovo equilibrio: «friend-shoring» , cioè un sistema commerciale di Paesi liberi e democratici, amici, separato da quelli autoritari, avversari. Non poco: è di fatto la teorizzazione del «decoupling», il disaccoppiamento dei sistemi economici . Il «friend-shoring» è un concetto non complicato. Prende atto che la globalizzazione degli scorsi 30-40 anni è in crisi a causa dell’aggressività di Mosca e di Pechino, le quali finora hanno approfittato della libertà di mercato globale per avanzare i loro interessi ma da qualche tempo puntano a imporre regole e modelli di governance mondiale autoritari, nei quali tra l’altro la libertà d’impresa è vincolata alle volontà dei loro governi. Invece di parlare di «re-shoring» , cioè del riportare «a casa», nei propri lidi, le fabbriche e gli investimenti che nei decenni passati le imprese occidentali hanno effettuato in giro per il mondo, Yellen dice che è necessario creare un sistema che funziona tra amici . Non è tanto l’accorciamento delle catene di fornitura, del quale si sta molto discutendo, ma piuttosto una presa d’atto dei rischi che le imprese si prendono investendo in Paesi autoritari, dai quali spesso vengono prodotte pessime sorpese. Quindi, non tanto catene più corte ma catene con meno rischi , tra amici. Le grandi imprese, multinazionali in testa , stanno già valutando questi rischi. La differenza sta nel fatto che Yellen propone che la svolta sia formalizzata, cioè sia indirizzata dai governi. Tra quelli democratici, amici tra loro, e si suppone anche con quelli semi-democratici, da non spingere verso gli avversari. Con chi accetta un sistema di regole separato dai modi di agire dell’asse degli autoritari . Il libero mercato dei decenni scorsi verrebbe così ridotto: certamente nella portata geopolitica ma forse anche nella libertà di scelta degli imprenditori e di chi fa business. Yellen ha scelto, per la sua analisi-proposta, l’occasione delle riunioni primaverili di Fondo monetario internazionale e Banca mondiale , le istituzioni che uscirono dalla Conferenza di Bretton Woods, nel 1944 , nella quale si disegnarono gli equilibri economici – e la preminenza del dollaro – per i Paesi a libero mercato, dopo la Seconda guerra mondiale. Propone di rivedere il ruolo delle due istituzioni . In questa prospettiva, entrerebbe probabilmente in crisi una terza organizzazione internazionale, la Wto , che nacque nel 1995, all’apice della globalizzazione, come luogo di commercio libero e multilaterale, aperto a tutti. L’orrore delle guerre arriva ovunque. Anche il business si militarizza .

Il Giappone ha deciso di fornire all’Ucraina tute per la protezione Nbc (nucleare-batteriologica-chimica) e droni per la sorveglianza aerea . Lo ha annunciato il ministro della Difesa di Tokyo, Nobuo Kishi, parlando con i giornalisti. Questa fornitura è il seguito di quella annunciata un mese fa, quando una spedizione di giubbotti antiproiettile, elmetti e mimetiche invernali ha raggiunto il Paese invaso dalle truppe di Mosca.

Il Sol Levante è sempre più coinvolto — come il resto del mondo democratico — nel sostenere gli sforzi (disperati) degli ucraini per non soccombere agli aggressori. Di fatto, Tokyo sta lentamente abbandonando la sua strettissima politica neutrale iscritta nella costituzione post bellica. Certo, il materiale fin qui fornito a Kiev è solo «difensivo» e i droni che partiranno per l’Ucraina , secondo quanto spiegato da Nobuo Kishi, sono «prodotti commerciali di libera vendita» in Giappone. Sarà, tuttavia sono gli stessi in dotazione alle forze armate nipponiche. Da registrare anche la reazione di Mosca che, irritata dalla mossa di Tokyo, ha di recente sospeso «indefinitamente», i colloqui sullo status della quattro isole catturate dall’Armata Rossa nel settembre 1945, con il Giappone già arresosi agli americani dopo Hiroshima e Nagasaki. Il paradosso della situazione è che tra i due Paesi , Russia e Sol Levante, manca ancora un trattato di pace. I due governi si sono limitati a siglare un armistizio nel 1956. D’altro canto, la storia bellica in Estremo Oriente è fatta di episodi antichi quanto ancora dolorosi . Nel 1905, dopo una guerra breve ma disastrosa per le truppe zariste, Tokyo divenne la prima potenza orientale a sconfiggere una nazione occidentale, strappandole concessioni e territori . E avvicinando la caduta di un regime già allora in ritardo sui tempi. Anche per questo Stalin approfittò di un Giappone ormai piegato al termine della Seconda guerra mondiale per prendersi una rivincita «facile» , dopo aver evitato accuratamente per tutto il corso del conflitto di dichiarare guerra all’alleato dei suoi nemici mortali in Europa. C’è da chiedersi in che posizione sia ora il pendolo della Storia.

Gli aggiornamenti minuto per minuto (qui) e gli approfondimenti di giornata (qui sotto).

I soldi di Putin: uno stipendio di 114 mila euro La seconda fase della guerra: attacco a Est Bucha: Putin decora i soldati degli eccidi Reazioni in musica: il «vaffa» dei Maneskin Cuoco in armi: lo chef di Putin L’intervista con Mario Draghi: «Armi all’Ucraina»

(Irene Soave ) Perdere gli Airpods , cioè gli auricolari senza fili che negli ultimi anni spopolano tra i proprietari di iPhone, è una seccatura tra le più comuni in tempo di pace. Siccome sono anche costosi hanno un software, «Dov’è», molto difficile da disinstallare , che li rintraccia infallibilmente quando vengono persi o rubati (e finiscono nelle mani di rivenditori di gadget «ricondizionati» o «usati»). Grazie a questo software, un uomo in Ucraina monitora i movimenti dell’esercito russo attraverso il confine, e li divulga sul suo account Instagram.

Lui si chiama Vitaliy Semenets , e casa sua, nei dintorni di Kiev , è stata saccheggiata come molte altre durante la ritirata dei russi. Facevano parte del bottino pure le sue cuffiette. Che prima sono state portate a Gomel, in Bielorussia ; poi a Belgorod, in Russia , dove Putin starebbe radunando molti soldati in vista dell’assalto al Donbass. Sempre in mano a un ignaro soldato russo, inconsapevole che ai tempi della guerra ibrida è un’arma anche il bottino .

Eccola, finalmente montata nell’Arsenale in laguna, l’installazione che rappresenterà l’Ucraina alla Biennale di Venezia : una piramide di 78 imbuti di bronzo con due tubicini ciascuno. Sabato l’inaugurazione, e l’artista Pavlo Makov quasi stenta a crederci. «Siamo pronti», ci ha assicurato stamattina inviando questa clip, in anteprima per i lettori del Corriere. Una corsa contro il tempo: prima per sottrarre la sua imponente «Fontana dell’esaurimento» alle bombe russe e trasportarla — in pezzi — verso l’Italia; poi per rimontarla e farla funzionare.

Non è stato semplice: settantotto imbuti, da soli, non fanno una fontana. Dovevano essere dotati di un’idraulica moderna e con il poco tempo a disposizione si doveva trovare un’azienda in grado di assemblare la struttura. «Non so se riusciremo a installarla, di sicuro noi ci saremo», ci aveva detto Makov a fine febbraio. Marie Lanko , curatrice del padiglione ucraino della kermesse, ha vinto la doppia sfida: la sera del primo giorno di guerra, Lanko ha lasciato Kiev alla volta dell’Italia con il cuore dell’opera inscatolata nel bagagliaio della sua auto, insieme al suo cane e a un collega , il direttore artistico del padiglione, Sergiy Mishakin. Poi, dopo tre settimane di viaggio (raccontate sul New York Times e su Instagram), Marie è arrivata a destinazione ed è riuscita a trovare una ditta a Milano in grado di riassemblare e far funzionare la fontana. L’acqua versata nell’imbuto posto al vertice colando in quelli sottostanti si divide di volta in volta fino raggiungere la base piramidale in forma di gocce. Un’opera dalle mille vite: si tratta di una rielaborazione di un vecchio progetto di Makov, concepito all’inizio degli anni Novanta, ispirato alle infrastrutture fatiscenti tipiche delle città post sovietiche . All’epoca l’approvvigionamento idrico era precario e a Kharkiv , la città dove l’artista ha vissuto per quasi quarant’anni (e dove vorrebbe tornare alla fine della guerra), nessuna delle fontane pubbliche funzionava. Poi la fontana era stata ripensata per denunciare l’esaurimento delle risorse naturali , con un rimando al tema dell’acqua alta a Venezia. Ma questa riflessione vira ora sull’esaurimento delle risorse emotive provocate da questa «guerra vigliacca», come ci aveva spiegato Makov qualche settimana fa, appena arrivato a Venezia. Con gocce di energia e di speranza si nutre la resistenza ucraina .

Grazie. A domani. Cuntrastamu. Michele Farina