C’è chi usa la parola «spezzatino», chi preferisce l’espressione «delocalizzazione all’italiana» e chi ancora semplifica con il termine «crisi» . La decisione della multinazionale Evoca Group di chiudere lo stabilimento Saga Coffee di Gaggio Montano entro il marzo 2022 è figlia di una telenovela che ha a che fare con lo smembramento di un’impresa che ha tenuto alto il nome dell’Appennino: la Saeco. E che oggi si intreccia con il nuovo paradigma dei fondi di investimento stranieri che controllano, e manovrano da lontano, le azioni delle società formalmente proprietarie delle industrie. Di qui la dichiarazione dell’amministratore delegato, Andrea Zocchi: «Non sono autorizzato a parlare».
Fondata nel 1981 dal bergamasco Sergio Zappella e dallo svizzero Arthur Schmed a cui si aggiunse Giovanni Zaccanti, il successo Saeco fu decretato nel 1985, quando fu lanciata sul mercato la prima macchina per caffè espresso automatica . «La Saeco — per dirla con la delegata Fiom, Simona Greco, dipendente dal ‘94 — è una mamma che ha contato ai tempi d’oro anche 1600 dipendenti e che negli anni si è sdoppiata nei due segmenti che oggi conosciamo: quello del mercato domestico delle macchine per caffé, che col Covid ha beneficiato della riscoperta da parte dei cittadini del buon espresso preparato in casa, e quello delle macchine professionali a cui invece la pandemia ha dato la “mazzata”».
L’inizio della nuova era è segnata dall’arrivo del fondo di private equity francese Pai Partners, che acquisì quasi il 70% delle azioni quando Saeco era quotata in Borsa. Era il 2004. Nel 2009 arrivò il gruppo olandese Philips, allora leader europeo. Investì oltre 20 milioni di euro nella fabbrica di Gaggio, mettendo fine alle difficoltà economiche che iniziava a vivere il marchio a dispetto di un eccesso di manodopera. È nel 2017 che si dà il via allo sdoppiamento: Philips cede la divisione Saeco Professional, brand Gaggia compreso, alla N&W Global Vending, azienda bergamasca leader nei distributori automatici per bevande e snack che poi diventa Evoca Group, al 100% controllato dal fondo americano Lone Stars. Quel ramo aveva il nome di Saeco Vending mentre il comparto delle macchine domestiche rimane a Philips fino allo scorso marzo, quando è ceduto alla holding cinese Hillhouse Capital. Denominazione: Domestic Appliances. La motivazione messa nero su bianco giovedì scorso da Evoca Group, che vuole spostare parte della produzione fra la sua sede principale a Valbrembo, dove mira a saturare gli impianti e ad assumere personale, e le sedi che possiede fra Spagna e Romania, è solo quella ufficiale dunque. Dietro c’è uno shopping mal regolato.
«La decisione è il risultato di un’approfondita analisi del mercato che ha evidenziato — aveva spiegato il management — la necessità di razionalizzare l’assetto industriale, a causa della sovraccapacità produttiva che lo caratterizza, e l’impossibilità del sito di Gaggio Montano di raggiungere i necessari livelli di competitività richiesti dal segmento Office Coffee Service, la cui offerta riguarda piccole macchine da caffè per l’ufficio». Criticità a cui si sarebbero aggiunti i cambiamenti del mercato, l’inasprirsi dello scenario competitivo e, infine, il Covid . I numeri presentati, però, al primo vertice andato in scena martedì in Regione e in cui la multinazionale non ha ritirato la decisione di chiudere ma si è impegnata a esplorare un piano di re-industrializzazione tramite la vendita, raccontano altro: il gruppo accusa 75 milioni di euro di perdite ma solo 6 milioni sono attribuibili al sito bolognese. «Che si risolvano il problema che hanno in casa – attacca il segretario confederale Cisl e per anni segretario Fim, Marino Mazzini –: non possono togliere il fatturato che realizzano a Gaggio Montano per spalmarlo negli altri stabilimenti che fra Bergamo, Romania e Spagna. Stanno sacrificando i lavoratori per i loro interessi».
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