Kenya, nuove storie di imprenditoria femminile

2022-03-03 06:01:52 By : Mr. Liu Tommy

Lasciarsi alle spalle il peggio della cultura patriarcale significa sostenere il lavoro e l'autonomia femminile

«Seguo un sogno green. Il riciclo dei rifiuti è un vantaggio per l’ambiente e per l’economia. Sono co-fondatrice e business development manager di Bottle Logistics East Africa, che mira a diventare la più grande impresa di trasformazione dei rifiuti di vetro del Kenya». Ha le idee chiare e ambiziose Louisa Gathecha, che ha iniziato la sua attività con 5 dipendenti e ora ne ha 52, di cui il 75 per cento donne, e presto ne assumerà altre 40-50. Luisa ha 31 anni, è nata in una zona rurale, si è trasferita a Nairobi per studiare marketing e vi è rimasta per lavorare. È sposata e ha una bambina di 2 anni. La sua impresa ha due stabilimenti, uno dove le operaie tolgono le etichette e lavano le bottiglie che verranno rese alle ditte locali di produzione, e un altro dove gli operai con una macchina frantumano le bottiglie importate, trasformandole in materia prima per il riutilizzo nell’industria del vetro e nell’edilizia.

«Per fortuna ora c’è più attenzione all’ambiente e aumentano sia le leggi che lo proteggono, sia le aziende che si occupano del trattamento dei rifiuti cercando di arrecare il minor danno possibile al pianeta», mi dice nel suo ufficio. Louisa è una delle nuove imprenditrici africane e ricopre un ruolo che fino a poco tempo sarebbe stato impensabile per una donna. Le sue dipendenti si dicono molto soddisfatte dello stipendio di 20.000 scellini (poco più di 150 euro), che con gli straordinari possono diventare 30.000 (230 euro), in un Paese in cui la paga minima reale è di 8.000 (60 euro). Un bel salto in avanti anche per loro, poiché un tempo il riciclo era appannaggio esclusivo dei rovistatori informali, uomini, donne e bambini, che ancora vivono e lavorano nelle discariche in condizioni disumane.

Grace Mbugua, 49 anni, è figlia di un’insegnante che ha fatto capire l’importanza della resilienza agli undici figli che ha cresciuto da sola dopo la perdita del marito. Anche lei proviene da una zona rurale e si è trasferita a Nairobi, dove ha cofondato e dirige Jeilo Collections, una ditta che produce una linea di articoli in pelle e stoffa e forma artigiani specializzati. È sposata e ha tre figli. «Il mio interesse è sempre stato l’empowerment economico. Se mia madre non avesse avuto uno stipendio, cosa sarebbe stato di noi figli? Due dei nostri 28 dipendenti, un uomo e una donna, sono stati assunti per fare le pulizie e ora sono cucitori specializzati. Noi crediamo che ognuno abbia diritto alle giuste opportunità per imparare e crescere. È un momento dinamico, in cui le donne possono entrare nel mondo dell’imprenditoria. Chiaramente per noi ottenere credibilità all’inizio è più difficile, ma dobbiamo aver fiducia in noi stesse e lanciarci. Perché no?», mi dichiara soddisfatta nel suo stabilimento. Sono giorni di grande eccitazione per l’imminente apertura del primo negozio della ditta.

Eccomi in una delle zone rurali, dove meglio si possono conoscere le tradizioni e le fondamenta della mentalità patriarcale che l’empowerment sta cercando di trasformare. Tutto cambia anche qui, ma a ritmi molto diversi. Ora sono a Wakor, nella contea di West Pokot che confina con l’Uganda. Le donne locali sono tutte contadine, oltre che madri di famiglia, casalinghe, allevatrici e cercatrici d’oro. Mi hanno ribattezzata Cheyech, che vuol dire “nata di mattina”, perché qui si danno i nomi a seconda di quando si è nati.

Se io fossi veramente Cheyech e non solo per il breve periodo del mio reportage, mi sveglierei ogni giorno verso le cinque. Preparerei la colazione – con il tè e il pane o i mandazi, panini dolci fritti, quando ci sono i soldi, o con gli avanzi della cena. Vestirei i bambini per andare a scuola. Pulirei la casa, mi occuperei degli animali e andrei a lavorare al vivaio o nello sham-ba, il campo. Alle 11 scenderei al fiume Wei-Wei per cercare l’oro (quei minuscoli granelli che si possono trovare fuori dalle miniere, dove le donne non sono ammesse). All’ora di pranzo tornerei a casa per cucinare ugali e sukuma (polenta di mais bianco e verdura a foglia verde) o riso e fagioli. Poi tornerei al fiume fino alle 6, quando fa buio. Con i granelli d’oro potrei arrivare a ricavare 200-300 scellini (poco più di 2 euro). Mi farei aiutare dai miei figli per prendere l’acqua e la legna e fare il bucato, pure dai maschi fino a quando non vengono circoncisi e diventano giovani uomini, a 12-13 anni. Tornerei a casa per preparare la cena, sempre gli stessi piatti. Andrei a letto alle 10. Mangerei la carne solo nelle occasioni speciali, come i matrimoni. Non potrei assistere alle circoncisioni, essere in presenza di uomini o mangiare con loro quando sono in gruppo, e durante le mestruazioni non potrei avere rapporti sessuali né andare in chiesa. Probabilmente resterei incinta ancora adolescente. Sicuramente dovrei sottomettermi a mio padre, mio fratello e mio marito.

Monika Julius ha 57 anni ed è la prima moglie di un minatore che ha altre tre spose. Qui anche i cristiani praticano la poligamia e per tradizione le vedove passano al fratello del defunto, insieme ai figli. Lei ha tre figli e una nipote, nata dalla figlia adolescente, che cresce come se ne fosse la madre. Non è mai andata a scuola. Quando era giovane, si diventava vere donne con la mutilazione genitale, la foratura delle orecchie con 12 buchi e l’estrazione degli incisivi (superiori o inferiori a seconda delle tribù). A lei hanno tolto i due superiori, oltre a quello inferiore che si levava anche ai maschi per nutrirli e medicarli in caso di malattie, quando qui non esistevano flebo e iniezioni. «Ora tutto ciò sta scomparendo. Il valore delle ragazze dipende dal livello di istruzione raggiunto: più è alto, più benestante sarà il marito», mi spiega. «La donna però è sempre quella che deve portare il cibo a casa, prendersi cura dei figli, della terra, e degli animali. L’uomo contribuisce pagando solo le rette scolastiche. Se in miniera trova una pepita grossa, non porta i soldi in casa».

Mkwiro è un tranquillo villaggio della contea di Kwale che confina con la Tanzania. Ha 1.500 anime, quattro moschee, una scuola elementare e un reparto maternità. Qui non si conosce violenza di genere, né si sono praticate le mutilazioni genitali da generazioni. Un uomo originario di qui ha fatto i soldi vivendo 40 anni negli Stati Uniti ed è diventato una sorta di leggenda locale; ora che è vecchio è tornato a casa. Ma la maggior parte degli uomini sono pescatori e muratori. Le donne lavorano incessantemente come sempre e dappertutto. Oltre ai loro compiti quotidiani, uguali a quelli delle donne delle zone rurali, nelle ore della bassa marea coltivano i loro sham-ba, i campi di alga spinosa nell’oceano Indiano. Camminano per ore con le ciabattine di plastica sulla barriera corallina, nell’acqua che arriva alle caviglie o fino alle ginocchia, a tratti scalze per andare più agili. Portano in testa con grazia grossi sacchi di alghe bagnate che arrivano a pesare 45-50 chili. Maryam Ayub Athumani, 10 anni, ha lasciato le sue scarpe da ginnastica attaccate a uno dei paletti che reggono i fili a cui sono annodate le mwani (così si chiamano qui queste alghe) e lavora a piedi nudi. Sua sorella Fatuma Kazdiche Nyawa ne ha 14.

Non sono indigenti, tutt’altro: sono le figlie della presidente dell’associazione e di un professore di religione che insegna a Mombasa, e lavorano nei campi marini quando non vanno a scuola. Su cinque sorelle, quattro coltivano le alghe e una studia all’università. Mzungu Mohammed Dossa, 39 anni, la seconda moglie di un marito operaio, sei figli, trova anche il tempo per produrre stuoie di foglia di palma insieme alle sorelle e alla nonna. Fatuma Mshee Bakari è vedova e ha 50 anni. Coltiva le alghe con le sue tre figlie. È contenta dei progressi rispetto a quando era ragazza: ora tutte le donne partoriscono all’ospedale e tutti i bambini vanno a scuola. Ma c’è ancora tanta povertà. Non ha i soldi per restaurare il tetto della casa che cade a pezzi. Le donne vendono le alghe a 25 scellini al chilo (meno di 20 centesimi di euro). In quattro mesi di lavoro, vendendone 300 chili, guadagnano 7.500 scellini (circa 57 euro).

Anche Nana Ali Famau è vedova e ha 67 anni. Rientriamo a riva camminando vicine sulla barriera corallina, io molto lentamente, con i miei piedi delicati di musungu, bianca, doloranti per tagli e vesciche dopo solo 3 giorni. Con un misto di ironia e senso pratico, lei mi prende per mano e mi tira, facendomi tornare la bambina di una mamma che tutto può.

Jacqueline Mutere, classe 1967, di Nairobi, ha cinque figli. Nel caos seguito alle elezioni presidenziali del 2007, che ha provocato mille morti, è una delle tante persone – uomini, donne e bambini – che sono state stuprate. Jacqueline è sopravvissuta, ha scoperto di essere rimasta incinta e, dopo aver tentato tre volte di abortire senza riuscirci (in Kenya è illegale) e deciso di dare la figlia in adozione, se ne è innamorata dopo averla vista all’ospedale; la bambina è così rimasta con lei, diventando la sua Princess. Ha fondato e dirige un’organizzazione per aiutare le vittime degli stupri nei periodi delle elezioni, quando la lotta per il potere scatena guerre tribali e la polizia diventa incontrollabile. «Grace Agenda è nata proprio qui a Kibera», racconta in una delle abitazioni dello slum più grande dell’Africa, «dove si è scatenato l’inferno, e dove ho trovato anche tanto sostegno. La nostra è un’agenda basata sul riconoscimento e sul sostegno dei sopravvissuti, e sulla lotta per il loro giusto risarcimento da parte del governo. Ci aspettiamo che il governo riconosca la responsabilità dei colpevoli, anche della polizia, finora intoccabile, e protegga i cittadini».

Wangu Kanja è nata a Nairobi nel 1975. Non è sposata e non ha figli. È sopravvissuta a uno stupro ordinario, di quelli che possono accadere tutti i giorni. «Stavo tornando a casa dal lavoro con due amici. Ci hanno fermati per rubarci la macchina e quello che avevamo addosso. Mi hanno violentata con una pistola puntata addosso. Il mio mondo è caduto a pezzi. Non ho avuto nessun aiuto né dalla polizia, né dall’ospedale, né dai miei perché i panni sporchi si lavano in famiglia. Sono sprofondata nella depressione per tre anni, ho cercato rifugio nell’alcol, fino a quando non ho capito che dovevo guarire. Se era così dura per me, che provengo da una famiglia di media borghesia e ho studiato fino al college, che ne era delle ragazze meno privilegiate? Ho fondato e dirigo l’organizzazione che porta il mio nome per dar loro assistenza psicologica, medica e legale», mi dice nella sede a Mukuru, un altro grande slum (il 60 per cento della popolazione di Nairobi vive negli slum, circa 2 milioni e mezzo di persone). «Ci sono momenti in cui avrei voglia di mollare tutto. Secondo i dati del governo, il 45 per cento delle ragazze e delle donne subisce violenza fisica, il 14 per cento sessuale. Ma noi sappiamo che solo una piccola parte denuncia, e che il covid ha peggiorato la situazione, secondo i nostri dati reali almeno del 28 per cento. La più giovane vittima è una neonata di quattro giorni, che è stata violentata dal padrino insieme al fratellino di tre anni. A volte gli stupratori pagano piccole cifre alle famiglie delle vittime, e così ne escono fuori impuniti. C’è stato il caso di due bambini di quattro e cinque anni violentati dalla stessa persona, che ha pagato 5.000 scellini (38 euro) per uno alle famiglie. Senza riabilitazione i bambini in questo modo imparano che vendendo il loro corpo possono risolvere dei problemi della famiglia, e sono avviati alla prostituzione». Per fortuna Wangu non molla e continua a lottare contro un mondo capovolto che tratta meglio i carnefici delle vittime. Mentre la fotografo, di sua iniziativa alza il pugno, e l’immagine che mi lascia non è quella della brutalità delle storie che ha raccontato, ma quella della sua luminosa resilienza.

L’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo (Aics) si impegna a tutelare, a difendere e a sostenere l’empowerment della donna in Kenya, promuovendo e incoraggiando l’imprenditoria femminile, supportando i servizi sanitari dedicati alla salute materna e infantile e sostenendo le donne impegnate nel lavoro agricolo e nelle filiere produttive collegate all’economia blu. In partenariato con UN Women, inoltre, Aics sta promuovendo un’iniziativa di prevenzione e risposta alla violenza di genere, fenomeno che diventa particolarmente rilevante durante i periodi emergenziali (elezioni, covid, promuovendo l’accesso alla giustizia e rafforzando i meccanismi di risposta.

Louisa e Grace, le imprenditrici intervistate nelle pagine precedenti, sono state sostenute dal progetto Incubatore d’impresa in Kenya. Sono state formate per potenziare le loro startup e sviluppare le loro strategie, e hanno ricevuto un prestito con cui hanno acquistato la macchina per frantumare il vetro (la prima) e macchine da cucire (la seconda). Come le loro, una quarantina di imprese sono state coinvolte nel progetto, tutte operanti in settori strategici per il Kenya e di eccellenza per l’Italia (energie rinnovabili, pellame, moda, agribusiness). Grazie al progetto Sustainable horizons for the blue economy, realizzato con l’Istituto agronomico del Mediterraneo (Ciheam, Bari), le giovani Maryam e Fatuma, Mzungu, Fatuma, Nana e le altre raccoglitrici di alghe miglioreranno il processo di essiccazione e avranno carriole e barche per trasportarle.

L’Aics ha la sede centrale a Roma, una sede distaccata a Firenze e 19 all’estero. Le attività di Nairobi si possono seguire sul sito web www.nairobi.aics.gov.it.