Natale Giunta: «Io, chef senza scorta, ho detto no al pizzo. E ora apro a Carini, terra di mafia» | Cook

2022-05-13 19:25:09 By : Mr. Sunshine Zhou

«Coming soon. Vi presento un pezzo dei duemila metri quadri del nostro nuovo stabilimento. Cucina, pasticceria (anche gluten free ), panetteria, lavanderia, logistica, piattaforma fredda, noleggio attrezzature per eventi, consulenza per grandi eventi, uffici, showroom, laboratori di ricerca». E poi la richiesta di curriculum vitae a chi fosse interessato a trovare impiego. Sul suo profilo Instagram , oltre 85mila followers, Natale Giunta , classe 1979, di Termini Imerese nel palermitano, è orgoglioso della sua «espansione» che arriva sì dopo due anni di pandemia, ma soprattutto a seguito di diverse intimidazioni da parte della mafia «perché io il pizzo non l’ho mai pagato , né intendo farlo. Oggi sono più determinato che mai a ripartire con un’azienda che è una macchina organizzativa in piena regola. Pensi che, all’interno, abbiamo persino una lavanderia industriale». Un progetto importante, che ha il suono inebriante della rivincita , a cui lavorano cinquanta persone su una superficie interna di duemila metri quadri e una esterna che è quattro volte tanto. Ma anche un bel messaggio di speranza in un periodo storico particolarmente complicato.

Ripartire in terre di mafia

La pandemia ha tagliato le gambe, vero. Ma chef Giunta, molto tempo prima, ha dovuto fare i conti con la malavita siciliana. «Il mio passato mi ha paralizzato a lungo . Ne sono uscito con una forza incredibile che, in tutta onestà, ancora oggi non so da dove arrivi. Mi hanno intimidito, minacciato, denudato dei miei collaboratori: da ottanta che erano me ne sono rimasti zero. La mia sola colpa ? Non essermi piegato a pagare il pizzo. Mi sono rimboccato le maniche con una sola certezza: combattere per cercare di recuperare quello che mi era stato tolto. Pian piano, tassello dopo tassello, mi sono rimesso in piedi. Oggi, insieme ai miei ragazzi, apro a Carini , un comune di poco meno di 40mila abitanti in provincia di Palermo. Un territorio difficile, con una grandissima densità mafiosa, dove il 30 per cento delle proprietà è sotto sequestro dello Stato. Se ho paura ? No, non più. Gli amici imprenditori mi dicono che ho avuto coraggio. Io sto semplicemente facendo il mio, al meglio delle mie possibilità, e continuo a farlo. Carini è un paese con molte potenzialità. A chi volesse intraprendere un’attività qui dico che si può fare: io ne sono la prova. Ripartire non significa soltanto ricominciare dopo due anni di Covid. Ripartire è lasciarsi il passato alle spalle, senza dimenticare, e percorrere la rotta dell’onestà, costi quel che costi. Io oggi sono un uomo libero ».

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Natale Giunta, il punto di non ritorno

La storia di Natale Giunta è di quelle che meritano di essere raccontate perché insinuano desiderio di riscatto. «La ferita non si è mai rimarginata: troppo vivo ancora il ricordo — raccontò in una precedente intervista a Cook —. Era sera inoltrata, una come tante. Io rientravo a casa a servizio finito. E già mi pregustavo le feste di Dea, il mio meraviglioso pastore tedesco. Le mancava solo la parola, sa? Invece niente. Per 48 ore niente. Finché due sere dopo, Dea si palesò in giardino agonizzante , perdeva sangue dalla bocca. Io corsi da lei, mi chinai, le accarezzai il muso. Lei mi guardò, quasi implorante, poi chiuse gli occhi e mi lasciò. Per sempre. Il veterinario disse che era stata uccisa. Brutalmente. “Polpette avvelenate”, pensai io. Invece no, peggio. Molto peggio. Le avevano fatto ingoiare pezzi di vetro . A quel punto realizzai che la mia vita era in pericolo. Le persone vicino a me erano in pericolo. Avevo motivi per pensarlo, ma non potevo, non volevo permetterlo».

Fino ad allora, la vita di chef Giunta andava a gonfie vele. Era il 2012 quando raggiunse l’apice del successo : ospitate in tv — a «La Prova del Cuoco» su Rai Uno—, due ristoranti, una società di catering, due street food, uno shopping online. Un piccolo impero che ne fece uno degli chef più affermati della Sicilia e non soltanto. Cominciò che era un bambino, scriverà nel suo libro «Io non ci sto. Il coraggio di un uomo contro la mafia» (RaiLibri) redatto con Angelica Amodei . «La dedizione per la cucina la devo a due mie zie greche: Policarpina, detta Paolina, e Antonia, per gli amici Antonietta. Sono cresciuto con loro. Mamma e papà erano troppo occupati: divisi, insieme ai miei nonni, tra il negozio di alimentari e il capannone di cibi che vendevano all’ingrosso. Io, parcheggiato dalle zie, passavo le giornate in cucina . Avevo il mio grembiulino, cucito su misura, e un panchetto per arrivare all’altezza del bancone dove mi divertivo a guardare le loro mani veloci, appassionate, mai stanche preparare pranzi e cene. Amavano il dettaglio, la precisione. Badavano alla sostanza, senza mai trascurare la forma. E ogni volta era un tripudio di sapori . Ho rubato l’arte e l’ho resa mia, prima studiando all’Istituto alberghiero; poi, a 16 anni, in una scuola di Alta cucina a Chioggia; a 18 a Milano, alla corte di Stefano Mei. Ancora oggi adoro stendere la pasta fatta in casa e preparare il pane a lunga lievitazione, come una volta. Amo riportare nei miei locali i ricordi di un tempo, gli ingredienti genuini , i sapori veri e originali. Mi piace credere che questo sia uno dei miei punti di forza».

Il coraggio di dire «no!»

L’altro è sicuramente il coraggio: di dire no, di denunciare, di cadere per poi rialzarsi. «Doveva essere l’anno della consacrazione. Invece quel 2012 si è rivelato orribile . Correva il mese di marzo, il 3 per l’esattezza: data spartiacque del prima e del dopo. Le ricette delle zie erano fra le più apprezzate sui menu dei miei ristoranti. Tra comunioni, cresime e matrimoni, mi aspettavano mesi di lavoro intenso. Il sogno che diventava realtà. Poi, dall’oggi al domani, il peggiore degli incubi. Si presentò da me un tal Franco , mi disse che avrei ricevuto la visita di due persone. Arrivarono di lì a qualche ora. Erano un giovane, con la spavalderia dell’età, e uno più anzianotto, con tanto di coppola sulla testa. Conoscevano ogni cosa , pareva che mi avessero passato sotto la lente di ingrandimento. Mi dissero che, dal carcere, “certi” detenuti mi guardavano. Sapevano che mi ero fatto da solo, senza chiedere u permesso , quello “giusto”, eh. E che, per questo, avrei dovuto versare una cifra mensile. “Sa, Giunta — mi spiegarono — le famiglie dei carcerati hanno bisogno di essere sostentate. Ci pensi e così avrà l’opportunità di “mettersi a posto”. Ci dia retta: noi siamo qui per proteggerla . Le stiamo evitando la visita di persone malintenzionate”. A quel punto realizzai che davanti a me avevo due mafiosi: mi stavano chiedendo il pizzo. Mi opposi. Replicarono: “Ci vediamo prima di Pasqua, siamo certi che per allora avrà cambiato idea”. Il più anziano si rimise la coppola sulla testa — se l’era tolta in segno di rispetto, gli uomini d’onore fanno sempre così —, poi entrambi si voltarono e imboccarono la via di uscita».

«Sono cresciuto cin l’amore per la giustizia»

Ancora una volta la mafia aveva bussato. Nella testa di Giunta si rincorsero pensieri e sensazioni. In una manciata di secondi gli si profilarono mille scenari . Che ne sarebbe stato di lui? Della sua famiglia, dei suoi affetti più cari? Forse conveniva abbassare la testa per vivere tranquilli… «Confesso, l’ho pensato. Ma io sono stato cresciuto con l’amore per la giustizia . Vengo da una famiglia di persone oneste, trasparenti, vere. No, non avrei più potuto guardarmi allo specchio. Sarei stato la delusione di mia madre e mio padre. No! Dovevo denunciare».

Giunta andò alla Polizia, raccontò l’accaduto. Sapeva che la sua scelta avrebbe avuto ripercussioni. E che si sarebbe trovato, prima o dopo, nelle sabbie mobili , senza avere la certezza di uscirne, professionalmente e personalmente. D’altra parte lo sappiamo: la mafia non fa sconti . «Il giorno più lungo. Mi sentivo osservato, seguito, braccato. Al comando, dove andai per raccontare l’accaduto, mi dissero di non confidarmi con nessuno. Bisognava mantenere riserbo assoluto. Questione di sicurezza: mia e delle persone che mi gravitavano intorno. Nel tempo mi lasciai andare solo con Francesca , una delle mie sorelle, la depositaria di tante confidenze. Mi abbracciò granitica. Da giornalista di cronaca nera, quella pesante, non si scompose più di tanto. O comunque non lo diede a vedere. Fu il principio della mia, della nostra nuova vita fatta di paure, notti insonni, sospetti, pensieri. Su tutto una certezza : stavo facendo la cosa giusta. Stavo servendo lo Stato».

Lo Stato rispose mettendo chef Giunta sotto scorta perché in concreto pericolo di vita. D’altra parte Giunta non disse no a un picciotto, ma a un «capo mandamento» di Cosa Nostra , il punto di riferimento di interi gruppi di famiglie che controllano parte del territorio. Da qui un calvario fatto di indagini, arresti, intimidazioni, interrogatori a ripetizione. Con le forze dell’ordine che inchiodavano malavitosi e sequestravano beni per milioni di euro da una parte; e gli aguzzini che facevano il lavoro sporco dall’altra. In mezzo il cuoco siciliano al quale la mafia non perse occasione di bruciare un camion, mettere a soqquadro un ristorante, recapitare buste con proiettili, uccidere il cane…

«La mia colpa? Essere onesto»

Ogni volta era una staffilata al cuore per chef Giunta che non ho mai avuto un ripensamento. «Quella della denuncia era la sola via percorribile e rispondeva a una scelta consapevole, da imprenditore che ama il proprio lavoro e va avanti, testa alta e spalle dritte. Poi ormai mi sentivo protetto. Avevo i miei angeli custodi. E la giustizia stava facendo il suo corso. Per qualcuno ero un eroe . Per molti colui che si era schierato dalla parte degli sbirri . Cosa piuttosto sgradita a parecchi dei miei collaboratori che, dall’oggi al domani, hanno lasciato il lavoro. Chi senza preavviso alcuno, chi rassegnando formali dimissioni. Quando vedi i tuoi dipendenti allontanarsi, non importa in che modo, puoi anche dire: “Beh, per certi versi forse meglio così”. Ma non mi nascondo dietro a un dito: la cosa mi ferì, parecchio . Stava andando tutto a rotoli. Niente personale, locali vuoti, nessun evento. Ne facevo cento all’anno. Sono arrivato a uno. Anni di sacrifici e duro lavoro andati in fumo, nella mia Sicilia. E tutto per essere stato onesto». La revoca

Natale però era ancora vivo, non libero — viveva protetto —, ma vivo. Fino a quando, nel 2018, dopo aver ricevuto tre incursioni in un mese dentro al suo locale, lo Stato revocò la scorta . «Feci ricorso al Tar del Lazio. Mi fu riassegnata “per presupposti di estrema gravità e urgenza”. Poi venne di nuovo revocata. Gettai la spugna : non avevo forze per combattere anche contro lo Stato».

«Oggi ho scelto di restare da solo, nella mia amata terra dove continuo a vivere. E lavorare. Faccio la spesa là dove la scorta mi proibiva di andare. Ho ripreso le mie abitudini , senza protezione, ma forte del rispetto della gente. E aiuto aspiranti cuochi a realizzare i loro sogni. Faccio parte della scuola di istruzione e formazione Euromadonie. E sono il direttore dell’Accademia di cucina. Mi piace l’idea di formare i giovani , la nostra vera grande risorsa: saranno loro a disegnare il futuro. Lo devo a quella bimba che, nel mio periodo più buio, venne da me e con fare timido mi porse un’azalea, la pianta che dà il benvenuto alla primavera, simbolo di rinascita, speranza e fortuna. Lo devo alle mie zie che mi hanno trasmesso la passione per il buon cibo. Se fossero qui oggi, preparerei loro il piatto del conforto : una minestra di verdure con fave secche, pan grattato, acciughe. Ingredienti siciliani, di quelli che ti fanno stare bene nello spirito perché genuini e sinceri. Li assemblerei con amore, esattezza e creatività, come facevano loro. Ho imparato che ogni piatto deve essere un’opera d’arte . Poi ne mangerei anch’io. E lo devo ai miei genitori . A papà Rosario che ha gli occhi verdi della disperazione e che ogni volta che mi vede tira un sospiro di sollievo e scoppia a piangere. Mamma Giuseppina no, lei è una donna forte, di quelle che sanno camuffare bene, ma che sotto sotto... A loro dico: “Sono ancora qui ”, determinato più che mai a rialzarmi. Con umiltà e tanto rispetto per gli altri. Sorrido quando mi chiedono se aspiri o meno alla stella Michelin. Un bel traguardo di cui andare orgogliosi, vero. Ma le mie ambizioni sono altre . Voglio dare nuova luce alla mia Sicilia. E continuare a sbugiardare il camaleontismo mafioso per garantire un domani certo alle persone che lavorano e lavoreranno insieme a me. Come quel ragazzo dal Bangladesh che si spacca la schiena lavando i piatti. E che invia l’80 per cento del suo stipendio alla famiglia che non vede da otto anni. Ma soprattutto voglio vivere finalmente sereno nella mia isola e per la mia isola. Ci sto, ci stiamo provando. Ecco, tutto questo mi fa sentire stellato».