Matura in questo clima di allarme ambientale la direttiva europea 904 del 2019: visto che non sappiamo gestire l’usa e getta in modo civile, per prevenire e ridurre l’impatto della plastica nei mari e sulle spiagge europee, bisogna vietare il materiale con cui questi oggetti vengono fatti. A partire dal 3 luglio di quest’anno posate, piatti, cannucce, bastoncini cotonati, agitatori per bevande, aste per i palloncini e contenitori per alimenti non potranno più essere realizzati in plastica, anche quelle biodegradabili .
Punto primo: cosa si può definire bioplastica? Cnr e Iupac da anni sono molto chiari: si possono definire tali le plastiche ottenute con materiali biodegradabili e compostabili. E a rendere un elemento biodegradabile non ètanto la materia prima di cui è costituito (che può anche essere di origine fossile) quanto la sua struttura chimica, poiché l’impatto ambientale di un determinato materiale è strettamente legato al tempo che impiega per biodegradarsi. Ci sono quindi due tipi di bioplastiche : 1) quelle che derivano da una miscela formata da acido lattico, amido (di mais, frumento, patate, tapioca, riso) e gli scarti della lavorazione del petrolio. 2) Quelle che derivano da microrganismi alimentati con zuccheri o lipidi. Gli oggetti monouso più comuni prodotti con questo tipo di materiale sono i sacchetti per la spesa, per l’umido, teli agricoli, sacchetti ultraleggeri, bicchieri, film per imballaggi, per alimenti, posate. L’Italia produce il 66% di tutta la plastica biodegradabile d’Europa .
La confusione nasce anche dall’Associazione Europea per le bioplastiche che parte da un altro presupposto: «si definisce bioplastica ciò che è biodegradabile, ma anche ciò che deriva da fonte rinnovabile» . E così sono entrati nel calderone anche il polietilene e il Pet, che derivano in tutto o in parte dal bioetanolo, prodotto per fermentazione di alcune specie vegetali. Certamente il ciclo di produzione genera meno gas a effetto serra e presenta un’impronta di carbonio più bassa rispetto alla plastica tradizionale che deriva dal petrolio, ma sono plastiche che quasi sempre non si degradano per nulla. Hanno una applicazione infinita: dalle bottiglie per l’acqua minerale ai contenitori per alimenti, posate. Rappresentano il 24% della produzione non tradizionale, ma definirle «bio» è ingannevole , scrive il Cnr nella sua relazione al Senato, perché induce il consumatore a pensare che si degradino e quindi ad essere meno attento. Scrive sempre il Cnr: «Alcune multinazionali hanno già visto il green business. La Plant Bottle della Coca-Cola presentata in pompa magna all’Expo di Milano 2015 come prima bottiglia in Pet 100% da materia prima rinnovabile, è una bottiglia che non si biodegrada, uguale a quelle che troviamo sparpagliate in natura, con l’unica differenza di provenire dagli scarti della lavorazione della canna da zucchero anziché dal petrolio». Attualmente non esiste infatti nessuna norma a livello europeo che precisi l’etichettatura ambientale di una bioplastica, salvo l’eccezione di quella «biodegradabile e compostabile».
È un processo naturale che può richiedere centinaia di anni, dipende dal tipo di materiale e dall’ambiente. Per la compostabilità delle plastiche bio esiste una normativa europea : è la Uni EN 13432 che prevede la biodegradazione in 90 giorni. Ma questo succede solo negli impianti di compostaggio dove ci sono determinate concentrazioni di batteri e temperature elevate. In ambiente domestico invece, dove le temperature sono variabili, queste plastiche devono potersi degradare al 90% entro 12 mesi. Se finiscono in ambiente marino la storia si complica: per quando possano essere biodegradabili, cambiano le condizioni di temperatura, presenza di ossigeno, carica batterica, e non è possibile determinarne la durata. Certo, se i cittadini differenziassero la plastica in maniera corretta il problema non si porrebbe, ma siccome così non è, il Parlamento europeo e il Consiglio hanno deciso di aggredire il problema a monte, vietandone l’uso per alcuni prodotti.
(...) se i cittadini differenziassero la plastica in maniera corretta il problema non si porrebbe, ma siccome così non è, il Parlamento europeo e il Consiglio hanno deciso di aggredire il problema a monte, vietandone l’uso per alcuni prodotti.
Gli Stati avevano due anni per organizzarsi, ma l’Italia, che da sola ha il 60% del mercato europeo dell’usa e getta, ha temporeggiato e il 7 giugno, quando sono state pubblicate le linee guida, è saltata sulla sedia. Da anni investiamo nella plastica biodegradabile e compostabile, siamo l’unico paese europeo a farlo : abbiamo innescato un processo virtuoso e ora rischiamo di perdere posti di lavoro . Le aziende coinvolte sono 280 aziende, 2.780 addetti, e un fatturato annuo di 815 milioni di euro, insomma siamo i leader europei del settore. Non a caso siamo stati i primi in Europa nel 2012 a introdurre gli shopper compostabili, biodegradabili in 6 mesi. Sapevamo quindi da due anni che l’orientamento era quello di escluderle, ma politica e imprese invece di fare fronte comune nelle trattative, coinvolgendo anche altri Stati, ognuna è andata avanti a difendere la propria di plastica: chi la fa col petrolio, chi con il bioetanolo, chi la biodegradabile, sperando in una proroga o una deroga. Che non c’è stata.
La direttiva ammette solo prodotti fatti con i polimeri non modificati : cioè quelli naturali, come la cellulosa. Ma se in un contenitore di carta ci metto della roba calda, con cosa lo faccio lo strato protettivo? Andranno bene le laccature, che di naturale non hanno niente, mentre i materiali supertestati fatti con gli amidi non sono stati considerati nelle linee guida. Sta di fatto che ora, in corsa, l’Italia ha chiesto, per piatti e bicchieri, di poter accoppiare alla carta un sottile strato di plastica. Non abbiamo specificato quale tipo di plastica perché tanto la direttiva non fa distinzione fra quella che si degrada e quella eterna. Stavolta l’appoggio lo abbiamo cercato e lo abbiamo ottenuto solo da Grecia e Polonia. La Commissione, che sembra orientata a concederci questo accoppiamento, si esprimerà a giorni.
La sostituzione dei materiali, però, da sola non risolve il problema. Occorre cambiare i comportamenti di cittadini e aziende . Ci sono materiali problematici fatti di carta e plastica e non riciclabili, altri di alcuni colori per ragioni di marketing, per esempio le vaschette nere non sono lette dalle macchine di smistamento e vengono mandate all’inceneritore anche se sono recuperabili. E soprattutto ridurre il numero di usa e getta, in vista delle prossime tappe .
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